Lo Chiamano 8 Marzo Ma Non Sanno Nemmeno di Cosa Parlano

Simboli che restano. Storie che resistono.

Oggi è l’8 marzo.

Sì, proprio quel giorno che in teoria dovrebbe ricordare la Giornata Internazionale dei Diritti delle Donne, ma che in pratica è diventato l’ennesima occasione per il sistema di mascherare le sue contraddizioni. Te ne accorgi già al mattino, appena metti piede fuori casa. Negozi tappezzati di cuoricini rosa, caffè serviti con il disegnino della mimosa sul cappuccino, frasi del tipo “sei speciale, auguri a tutte le donne”. C’è qualcosa che stona. Non è fastidio, non è rabbia. È uno scollamento. Un disagio sottile che ti prende quando ti accorgi che le parole non coincidono con i fatti, e che la celebrazione serve più a mettere a tacere che a far parlare.

Perché lo chiamano “festa”? Chi ha deciso che questo giorno va celebrato come un compleanno qualsiasi? Dove sono finite le radici di questa giornata? Dov’è finita la lotta?

Il problema non è il fiore in sé. Non è la mimosa. È quello che ci hanno costruito sopra. Ti dicono che rappresenta la forza e la delicatezza della donna, ma ti nascondono che fu scelta nel '46 dalle donne partigiane perché era un fiore povero, accessibile a tutte. Non volevano un mazzo costoso, volevano un simbolo che parlasse di resistenza, di autonomia, di fioritura anche nel gelo. Oggi quel significato è stato svuotato, e la mimosa è diventata solo un gadget stagionale. Un modo gentile per dire: “Ecco il tuo giorno, adesso taci”.

È il sistema che ha bisogno di chiamarla festa. Una festa è innocua. Una festa non disturba, non chiede spiegazioni, non pretende responsabilità. Una festa serve a neutralizzare la memoria, sterilizzare la protesta, rendere accettabile ciò che non lo è. Quando la pubblicità parla di donne in questo giorno, non ti mostra le partigiane fucilate, le operaie bruciate vive nella fabbrica di New York, le donne torturate nelle caserme, o quelle costrette ancora oggi a scegliere tra lavoro e maternità. No, ti mostra sorrisi patinati, promozioni speciali, aperitivi “al femminile” e un’infinita retorica del “sei unica”. Ma unica rispetto a cosa?

Come apprendista, io mi sto esercitando in un’arte più scomoda: chiedermi il perché delle cose. Non mi basta accettare quello che vedo. Non mi basta ripetere frasi già pronte. Mi chiedo cosa c’è dietro. Chi ci guadagna. Quale struttura si rafforza ogni volta che ci viene chiesto di “essere positivi” e “non lamentarci”. E ogni volta che mi chiedo il perché, la risposta è sempre lì, a metà tra il rimosso e il ridicolo: non vogliono che ricordiamo. Vogliono che collaboriamo.

Collaborare significa accettare. Significa adattarsi a un linguaggio che non mette in discussione niente. Ma noi non possiamo permettercelo. Non in amore, non nel lavoro, non nel sesso, e nemmeno nella memoria. Perché senza critica, ogni proposta è solo una variante della prigione.

L’8 marzo non è nato per essere accettabile. È nato per disturbare. Per pretendere spazio. Per fare rumore. Se oggi non fa più rumore, allora qualcuno ha spento l’amplificatore. E quel qualcuno non è uno, ma un intero sistema che preferisce donne educate e silenziose, uomini distratti e “gentili” a comando, e una società che si commuove per un fiore ma si indigna se una donna urla per farsi ascoltare.

Non è che io non so cos’è l’8 marzo. È che so benissimo cosa dovrebbe essere, e vedo con chiarezza chirurgica quanto sia diventato altro. Il paradosso è che ci vendono “sensibilità” confezionata in offerta 3x2, ma non reggono un discorso su diseguaglianza, sessismo o violenza sistemica. Parlano di rispetto, ma solo se è comodo. Parlano di libertà, ma solo se non mette in discussione la loro posizione.

E allora no, oggi non faccio auguri.
Oggi non festeggio nulla.
Oggi critico.

Perché nel momento in cui smettiamo di criticare, smettiamo di essere vivi dentro.
E se qualcuno mi chiede cosa intendo per “criticare”, la risposta è semplice: vedere l’incongruenza tra ciò che viene detto e ciò che viene fatto, e rifiutarsi di far finta di niente. È questo il gesto minimo, ma rivoluzionario, che ognuno di noi può compiere.

Oggi, su questo diario, scrivo questo appunto: "Non basta sapere che qualcosa non torna. Bisogna iniziare a dirlo ad alta voce." Anche se sei da solo. Anche se ti dicono che stai esagerando. Anche se ti dicono che “rovini la festa”.

Ma a noi la festa non serve.
A noi serve verità.
E soprattutto: serve la capacità di chiederci il perché delle cose, anche quando la risposta ci fa sentire scomodi.

Fine della voce. Ma non della riflessione.


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