Le mie confessioni al neon: anatomia di un ego a puttane
La prima volta che mi sono sentito Dio (e ho capito che era una fregatura)
Il mio ego è nato in una sera d’estate.
Non è nato da un trauma, da un abbandono, da un padre assente o da una madre troppo presente.
È nato da uno sguardo che durò due secondi in più del previsto.
Quello di Giulia, 19 anni, occhi neri come le bugie che stavo per raccontare, bocca da poster e un’aria annoiata da regina.
Fu la prima che mi fece credere di esistere più di quanto io fossi pronto a essere.
Non era amore. Non era neanche sesso.
Era un rituale iniziatico: la mia prima vera conquista.
Non perché fosse bella, ma perché io non ero nessuno, e lei mi aveva visto.
O almeno così pensavo.
Ricordo tutto come se fosse stato girato in una puntata di Euphoria.
Il sudore sotto la maglietta nera, il gin tonic in mano, i sorrisi finti a chiunque passasse, e poi lei, in piedi, appoggiata al muro con lo sguardo di chi non si aspetta niente.
E io, che per la prima volta, non cercavo amore.
Cercavo conferma.
La differenza è enorme: l’amore ti apre, la conferma ti gonfia.
Le parole con cui la conquistai non me le ricordo. Forse le copiai da un film.
So solo che a un certo punto rideva.
Rideva delle mie stronzate e io ridevo con lei,
ma non ridevamo insieme: io stavo facendo l’attore, e lei l’aveva scambiato per presenza scenica.
Quando ci baciammo — se così si può dire — sentii l’universo piegarsi a me.
Giuro.
Come se per un istante tutte le mie insicurezze, tutte le serate da solo con la mano in tasca e i pensieri storti,
tutti i rifiuti delle medie e gli “amico mio” al liceo
fossero stati azzerati da un bacio troppo bagnato in una stanza troppo buia.
Avevo vinto.
E l’ego si gonfiava.
“Vedi? Puoi piacere.”
“Vedi? Puoi avere.”
“Vedi? Puoi dominare.”
E così iniziai a crederci davvero.
Iniziai a pensare di essere qualcosa di più di un ragazzo confuso.
Mi atteggiavo. Cambiai il modo in cui camminavo, ridevo, scrivevo i messaggi.
Ogni cosa era progettata per sedurre, per confermare che io valgo, ma nessuna conferma bastava.
Passai settimane a rincorrere altri baci, altri messaggi, altri sguardi lunghi due secondi.
Ogni conquista era un trofeo.
Ogni letto una performance.
Ogni silenzio dopo il sesso, una voragine piena di niente.
Poi arrivò la caduta.
Non fu spettacolare.
Non crollai urlando o piangendo.
Semplicemente mi svegliai una mattina in un letto sfatto, con la luce che filtrava da una finestra che non conoscevo, e una ragazza accanto di cui non ricordavo nemmeno il nome.
Lei dormiva. Io no.
Io fissavo il soffitto, nudo ma vestito di domande.
“Chi cazzo sei diventato?”
“Quando hai smesso di cercare connessione e hai iniziato a usare le persone come specchi?”
“Quanto durerà ancora questo trucco?”
La verità?
Non ero Dio.
Ero un apprendista stanco. Un ragazzino con la faccia da adulto e l’anima rotta a metà tra desiderio e vergogna.
Mi ero venduto per sentirmi qualcuno, ma mi stavo svendendo per non sentirmi nessuno.
Quella mattina, non tornai a casa.
Presi il telefono, cancellai tutti i messaggi di quella notte, tutte le conversazioni che non dicevano niente ma lasciavano intendere tutto.
Spensi i social.
Accesi lo stomaco.
E per la prima volta dopo mesi…
mi chiesi come mi sentivo davvero.
La risposta non arrivò subito.
Ma da lì iniziai a scriverle.
Queste righe.
Queste confessioni al neon.
Questi pezzi di un ego a puttane che ogni tanto si crede Dio e poi si schianta tra le lenzuola di qualcun altro.
Riflettevo su Essere un Apprendista
Essere un apprendista seduttore non è imparare a rimorchiare.
È imparare dove stai mentendo a te stesso mentre ci provi con gli altri.
È riconoscere che l’ego si veste da vincente, ma sotto la giacca ha fame, vergogna e voglia di essere amato.
E ogni conquista è solo una scusa per non chiederti davvero:
“Ma io, mi sto piacendo?”